lunedì 23 settembre 2013

Lettera di Marco Sacchi (prima parte)

LOTTE PROLETARIE E REPRESSIONE STATALE La crisi è diventata il terreno su cui a borghesia, sviluppa la sua vera e propria guerra di classe: l’estorsione di crescente sfruttamento n’è l’asse portante, repressione e militarizzazione ne sono le armi. L’ulteriore restringimento dei margini di mediazione porta alla definizione di nuove politiche di contenimento dei conflitti e conseguenti strategie repressive. La riscrittura del “diritto del lavoro” sotto dettatura padronale registra (e approfondisce ulteriormente) i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Neutralizzare, paralizzare la classe operaia, diventa essenziale per intensificare sempre di più l’estrazione dei profitti. Essa è sempre un pericolo potenziale, latente, nonostante la vigile custodia delle centrali sindacali (CGIL-CISLUIL, sindacalismo autonomo e “di base”); in questi anni, si è giunti a privare i lavoratori delle pur minime condizioni legali per l’autorappresentazione ed organizzazione. Il passaggio dalla concertazione ad accordi che ingabbiano e inibiscono il conflitto sui luoghi di lavoro, rappresenta una svolta pesante. Così come già succede in alcuni campi di lotta sociale, le tensioni dovrebbero essere incanalate in ambiti istituzionali e pacificate. Mentre conflitti e pratiche di carattere antagoniste sono criminalizzate. Una strategia di repressione, sempre più preventiva, colpisce sia le espressioni avanzate di autonomia, dentro le lotte, sia le organizzazioni che si dispongono in modo conseguente sul terreno dello scontro. Le difficoltà del fronte di classe sono evidenti nella frammentazione delle forze organizzate e nell’inadeguatezza globale dei livelli politici e organizzativi. Così, le resistenze, talvolta coraggiose e determinate, si ritrovano in difficoltà di fronte ad attacchi repressivi pesanti ma anche articolati e selettivi, che mirano all’intimidazione, disgregazione abbandono della lotta. Nuove leggi sono varate in tempo reale all’azione repressiva in corso come l’attuale istituzionale del reato di “violazione di sito d’interesse strategico nazionale”. È chiaro che, in tale situazione chi non arretra viene a confrontarsi con un livello di scontro difficile da sostenere senza un’adeguata strategia. La stessa continuità della lotta è legata, è condizionata dalla sua capacità di reagire alla repressione. Così come “nessuno deve restare indietro”, e “tutti insieme Si parte, tutti insieme si ritorna”, allo stesso modo è fondamentale il sostegno di chi viene colpito, perché anche in ciò si misurano la capacità di tenuta e le ragioni della lotta. Chi non sa difendersi non potrà nemmeno attaccare. Ma come si articola, oggi, la lotta contro la repressione? C’è il primo aspetto, appena citato, politico e umano, per cui non vanno mai lasciati soli i compagni colpiti. C’è pure un aspetto economico, che può pesare sulla sopravvivenza della lotta e dei militanti stessi: multe, le spese legali e processuali, il sostegno ai prigionieri le casse di resistenza contro i licenziamenti rappresaglia. Infine l’aspetto politico fondamentale: continuare a sviluppare la lotta con rinnovata determinazione. Vale a dire, solo rispondendo con nuovi salti di qualità, approfondendo lo scontro, quindi non solo sul piano della lotta specifica ma maturando, via via condizioni e termini per disporsi sul piano di lotta strategica, solo in questo modo si può evitare di avvitarsi nella difesa antirepressiva. Bisogna avere chiaro, che più le lotte si radicalizzano, diventano antagoniste rispetto all’assetto sociale attuale, più la risposta dello Stato attraverso i suoi apparati legali (polizia, Magistratura ecc.) e non (servizi segreti, criminalità organizzata) sarà sempre (ed è già) di una maggior repressione. Cosa si fa allora? Ci si ferma? O peggio, si arretra? Magari per poter ottenere l’attenuazione di eventuali condanne? Queste non sono domande provocatrici - basti pensare agli anni ’80 e alla tragica scia di pentitismo e dissociazione. Prendiamo come esempio l’esperienza NO-TAV, le ultime misure da parte dello Stato sono state molto drastiche: militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali e fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristico-eversiva. Il movimento si trova davanti ad un bivio: compiere un salto in avanti, politico-organizzativo, assumendone tutte le conseguenze o arretrare. Dal mio punto di vista è apprezzabile la tenuta militante dei compagni incriminati in sede processuale (c’è stato persino da parte di alcuni/e compagni/e l’atto di revoca degli avvocati). In questi atti e nei processi di rottura in generale c’è la fondamentale affermazione della contrapposizione di interessi e logiche di classe che nega e fa saltare la presunta neutralità e pretesa di “giustizia” da parte dell’istituzione giudiziaria. Questi atti arginano la tendenza più ovvia e diffusa, al diffensivismo innocentista e legalista che è proprio il terreno su cui la repressione cerca di farci arretrare.

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